Il Segugio Smarrito

Landini, il fiato corto della CGIL in una piazza che ulula alla luna.

Il sindacato, ormai seduto sulle morbide poltrone del conformismo, si illude di annusare la traccia della protesta. Ma il suo olfatto politico è atrofizzato, e la sua corsa, goffa e tardiva, è solo il tragico teatro di un’irrilevanza.


Nel vasto e crudele panorama della mobilitazione di massa, c’è una figura che si aggira con la dignità tradita di un re senza corona: il segugio viziato. Seduto per decenni sulle poltrone imbottite delle concertazioni e delle burocrazie, ha perso la ruvidezza del pelo e, cosa ben più grave, l’acume del naso. Quest’animale, un tempo leader del branco, è oggi Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, e la sua recente apparizione nelle piazze è un dramma silenzioso di inettitudine e disperazione.

L’invidia del levriero

Il segugio viziato non guida la caccia; la invidia. Guarda con occhio stanco i levrieri – i movimenti di base come USB, le frange “barricadere”, la protesta pura e incontrollata – che hanno la forza disperata di correre senza calcoli, senza l’ipoteca di una storia da difendere. Quando la piazza ha chiamato, la CGIL non era in testa, era in coda, buttandosi “a pelle di leopardo” su una protesta che non aveva né generato né compreso.

Il segugio Landini, abituato a cacciare prede facili e negoziate, non riconosce la traccia dell’indignazione vera. Il suo olfatto, un tempo infallibile nel distinguere il “puzzo” del padronato dall’odore del malcontento operaio, è ormai neutralizzato dal profumo della comodità. Come spiegare altrimenti la sua “passeggiata” – termine che già tradisce la stanchezza – accanto a striscioni che inneggiavano a eventi tragici e brandendo bandiere di Hezbollah e Hamas, per poi svegliarsi 24 ore dopo con un’indignazione “a freddo”? Non si è accorto. Non poteva accorgersi. Il suo naso è guasto.

L’illusione e la menzogna tragica

E così, il segugio è costretto a rifugiarsi in un mondo parallelo, l’unica dimensione in cui può ancora credere nella sua leadership.

Di fronte ai numeri aridi che smentiscono la sua influenza – adesioni allo sciopero sotto il 10% in molti comparti, al massimo il 25% – Landini non può accettare il verdetto. L’orgoglio ferito lo spinge a un’affermazione di una solitudine quasi metafisica: “Cento piazze piene dicono che la gente ha scioperato”.

Questa è la menzogna tragica. Egli deve credere che quelle “tre milioni di persone” fossero i suoi lavoratori, i suoi iscritti, la sua traccia. Ma in realtà, la piazza era un grido di pancia, un moto di indignazione non filtrato, una massa eterogenea mossa dalla disperazione e dalla repulsione per l’orrore, non certo dalle stanche bandiere del sindacato rosso.

Landini si illude che “battersi per la pace significhi anche battersi per il lavoro,” in un tentativo goffo e disperato di cucire la protesta geopolitica con le istanze sindacali, creando una correlazione che appare “evidente a tutti che non c’è alcuna correlazione logica.”

L’articolo finale di questo dramma è la reazione a Salvini, che propone di far pagare i danni a chi organizza: Landini accusa di voler “mettere in discussione il diritto di sciopero.” Ma lo sciopero, in questo contesto, è stato un atto formale svuotato di senso. Il segugio si aggrappa alla forma – il diritto – perché la sostanza – il potere – gli è ormai scivolata via.

Il segugio viziato, incapace di guidare la corsa, costretto a inventare un popolo e a ignorare i simboli della protesta per non ammettere la propria irrilevanza. Si ritrova a ululare alla luna di Marte, come ironizza il cronista, in un grido che non è più di battaglia, ma il lamento patetico di chi ha scelto il comfort del canile al rischio della foresta, e che ora guarda i levrieri correre liberi con una nostalgia amara e tardiva.


Cosa accadrebbe al “segugio viziato” se i levrieri decidessero di formare un loro branco autonomo e non sindacale?