Lavoro, diritti e cittadinanza al centro dei referendum abrogativi promossi dalla CGIL. Tra costi, partecipazione e polemiche: il vero voto sarà sulla credibilità della politica.
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L’8 e 9 giugno 2025 gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi, toccando temi come la cittadinanza per stranieri, la sicurezza sul lavoro, la precarietà e il licenziamento. Promossi da sindacati e movimenti civici, i referendum arrivano in un clima di forte polarizzazione ideologica e sociale. Ma è davvero questo lo strumento giusto? E, soprattutto, è il momento giusto?
Strumentalizzazioni ideologiche: un deja-vu?
Che la CGIL sia in prima linea nella promozione di questi quesiti, non sorprende. Ma è evidente che i referendum si prestano a una lettura politica ben precisa. La scelta dei temi – reintegro in caso di licenziamento illegittimo, contratti a termine, indennizzi, sicurezza sul lavoro – richiama direttamente la stagione post-Jobs Act, con un chiaro intento di disinnescare alcune riforme liberiste degli anni passati. In questo senso, lo strumento referendario rischia di essere utilizzato come leva di pressione ideologica più che come occasione di reale confronto democratico.
La domanda sorge spontanea: si tratta di un’azione a favore dei lavoratori o dell’ennesimo terreno di scontro tra blocchi politici incapaci di trovare una sintesi parlamentare?
C’è solo la via referendaria?
I quesiti affrontano nodi reali della società italiana, ma l’uso del referendum abrogativo come strumento di riforma desta perplessità. Lo si utilizza, ancora una volta, per supplire all’inerzia del legislatore. Una scelta obbligata, forse, ma anche un segnale del fallimento della politica rappresentativa. È legittimo chiedersi: è accettabile che la regolamentazione del mondo del lavoro – tema complesso e dinamico – venga affidata a un sì o un no secco, scollegato da qualsiasi contesto applicativo?
Tematiche utili o solita pagliacciata politica?
I temi trattati dai referendum sono tutt’altro che banali: dalla precarietà crescente alla tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, fino al lungo e controverso iter per la cittadinanza. Tuttavia, l’impressione di molti cittadini è che questi quesiti finiscano per essere ridotti a slogan. Un terreno fertile per la propaganda, ma arido per chi cerca soluzioni pragmatiche.
Nel frattempo, la narrazione pubblica si concentra più sul “chi promuove” che sul “perché lo si fa”. Il risultato? Il cittadino medio – già sfiduciato e sopraffatto da altre emergenze – rischia di non sentirsi interpellato.
Italiani e dignità: chi non arriva a fine mese cosa pensa?
Secondo i dati Istat, oltre 5 milioni di italiani vivono in condizioni di povertà assoluta. Per questi cittadini, il problema non è solo il licenziamento o il contratto a termine: è il pasto di domani, l’affitto a fine mese, le bollette insostenibili. In questo contesto, un dibattito tutto interno alle élite sindacali e accademiche appare distante, se non addirittura irritante.
Cosa pensano questi italiani dei referendum? Forse che è l’ennesimo teatrino dove le risorse pubbliche vengono spese per garantire visibilità politica, mentre i problemi quotidiani rimangono senza risposta.
L’enorme costo dei referendum: investimento o spreco?
Organizzare un referendum nazionale costa, in media, oltre 300 milioni di euro. Una cifra enorme, soprattutto in un momento in cui lo Stato fatica a rifinanziare sanità, trasporti, scuola. Con un quorum difficile da raggiungere – come dimostrano le esperienze precedenti – non è irragionevole definire “azzardo” questa consultazione.
Per chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, questa cifra rappresenta uno sfregio. Sono soldi ben spesi per la democrazia o gettati al vento in una messinscena che non cambierà nulla?
E se votassimo digitalmente?
In un’epoca in cui si firma un mutuo o si fa la dichiarazione dei redditi da uno smartphone, l’Italia continua a votare con matita copiativa e verbali cartacei. Eppure, introdurre il voto digitale – sicuro, certificato e verificabile – potrebbe abbattere drasticamente i costi delle consultazioni, rendendo anche più facile la partecipazione dei fuorisede e dei cittadini all’estero.
Ma forse proprio questo è il punto: un sistema più efficiente e meno costoso rischierebbe di sottrarre potere a chi gestisce il sistema attuale, dalle burocrazie elettorali alle cordate partitiche che temono l’innovazione come la peste.
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Conclusione
I referendum del 2025 si presentano come un banco di prova della partecipazione democratica, ma rischiano di trasformarsi nell’ennesima illusione collettiva. Non bastano le buone intenzioni, servono proposte credibili, sostenibili e percepite come utili dalla maggioranza silenziosa del Paese. Altrimenti, sarà ancora una volta l’astensione a vincere. E con essa, la sfiducia.